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Obdulio Varela

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view post Posted on 16/7/2008, 22:06
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Obdulio Jacinto Muiños Varela (Montevideo, Uruguay, 20 settembre 1917 - 2 agosto 1996) è stato un calciatore uruguayano soprannominato "El Negro Jefe" ("Il capo nero"), meglio conosciuto con il cognome materno Varela.

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Carriera

Giocò nel Club Deportivo Juventud e nel 1937 passó al Club Wanderers. Nel 1943 fu trasferito al Peñarol, dove vinse il campionato nel 1944, 1945, 1949, 1951, 1953 e 1954. Con la selección uruguayana vinse il campionato sudamericano del 1942. Debuttó in nazionale nel 1939.
Fu capitano dell'Uruguay che vinse la Coppa Rimet del 1950 contro il Brasile, in quella finale conosciuta come il "Maracanazo". Giocò anche al mondiale di Svizzera 1954. Con lui in campo, l'Uruguay non conobbe la sconfitta nella sua storia dei mondiali.

Obdulio Varela è uno dei più grandi eroi del calcio uruguagio con la sua mitica maglia numero 5. Senza dubbio, se quando si parla del "Negro Jefe" gli uruguayani si riempiono di orgoglio e soddisfazione, Varela non fu ricompensato per quello che fece: nacque, visse e morì nella povertà.

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I dirigenti uruguaiani, in vista della partita decisva del mondiale 1950 al Maracanà contro il Brasile, dissero ai ragazzi: "Se perdiamo con il minimo scarto, avremo raggiunto il nostro scopo". Obdulio, come lo chiamavano tutti, insorse: "Macchè sconfitta, dobbiamo vincere! Raggiungeremo il nostro scopo solo diventando campioni!". Pareva la follia di un esaltato capopopolo quale indubbiamente "El Jefe", il capo della Celeste, era. Obdulio Varela incarnava l'anima della squadra, la grinta combattiva che poteva opporsi allo strapotere tecnico dei maestri brasiliani. In campo, la ciurma si aggrappò alla sua energia.
E’ il 16 luglio 1950, stadio Maracanà di Rio de Janeiro. Una torcida di 200.000 tifosi è già pronta a festeggiare la prima vittoria mondiale del Brasile. Un popolo intero attende il carnevale del dopogara per le ruas. I carioca sono forti, fortissimi. Hanno rifilato sei gol a Svezia e Spagna. La Federcalcio uruguayana è rassegnata a perdere, ma vuole una sconfitta dignitosa, non più di quattro gol di scarto. Obdulio non ci sta. Ha 33 anni, è l’unico della squadra ad avere esperienza internazionale, è all’apice della sua carriera, e all’uscita dagli spogliatoi carica i suoi: “Non guardate mai le tribune! La partita si gioca qui sotto!”. Impedisce persino il lancio della monetina, riconsegnandola all’arbitro per dare ai brasiliani, così dice, la consolazione del calcio d’inizio. E’ sicuro, sarà la sua nazionale a laurearsi campione. La gara fila liscia fino al sesto minuto del secondo tempo, quando Friaca mette a segno il vantaggio del Brasile. Il Maracanà è un boato di gioia, per l’Uruguay sembra finita. Sembra. Perché Obdulio freddamente si avvicina alla propria porta, prende il pallone, osa anche protestare per un fuorigioco, mentre intorno a lui è una bolgia infernale. Poi torna verso il cerchio di centrocampo, lentamente. Ci mette tre minuti tre per raggiungere l’arbitro. Chiede un interprete, discute con il direttore di gara, mentre i tifosi, riavutisi dall’ubriacatura del gol, cominciano a mostrare i primi segni di insofferenza, ad insultarlo. Obdulio guarda provocatoriamente la folla. Ha ottenuto ciò che voleva: ha raffreddato gli animi. La partita, sul piano emotivo, torna ad essere in parità. Anzi no. Guarda i suoi e dice: “Questa partita la vinciamo noi”. Per il miracolo nulla andava lasciato di intentato. E se il ct Lopez aveva impostato una tattica prudente e copertissima, lui decise che a quel punto occorreva distendersi in contropiede e puntare al gol. Da quel momento l’Uruguay è una furia: prima pareggia, con Schiaffino al 19’, su un cross di Ghiggia innescato stupendamente da Varela, ammutolendo d’un colpo il Maracanà. Poi, a nove minuti dal termine, infila il gol del trionfo con Ghiggia. L’Uruguay è campione del mondo, il Brasile un paese in lutto. Obdulio ammetteva: "Non prendiamoci in giro: l'avessimo giocata cento volte, una sola l'avremmo vinta: questa. Il calcio migliore lo giocano sempre i brasiliani".
Quella notte Obdulio non lascia Rio. Si confonde fra i tanti brasiliani che prendono d’assalto, disperati, i tanti bar della città. Beve con loro, ne condivide l’amarezza. E’ una strana notte di gioia e lacrime, che racconta con queste parole: “Il proprietario del bar si è avvicinato a noi insieme a quel tizio grande e grosso che piangeva. Gli ha detto: - Lo sa chi è questo qui? E’ Obdulio - . Io ho pensato che il tizio mi avrebbe ammazzato. Ma mi ha guardato, mi ha abbracciato e ha continuato a piangere. Subito dopo mi ha detto: - Obdulio, accetta di venire a bere un bicchiere con noi? Vogliamo dimenticare, capisce? - Come potevo dirgli di no? Abbiamo passato tutta la notte a sbevazzare da un bar all’altro” (Osvaldo Soriano, Fùtbol). Così Obdulio rinunciò alla sua festa per immedesimarsi nella sofferenza degli sconfitti, lui che di quella sconfitta era stato l’architetto. Anni dopo annegò nell’alcool e nella miseria. Ma il “grande capo nero” quella notte vinse due volte.
Obdulio Jacinto Muinos Varela era nato il 20 settembre 1917 e aveva debuttato in Prima divisione nelle file del Wanderers nel 1938. Centromediano del Metodo, dominatore dell'area di rigore e della zona centrale del campo, venne ceduto al Penarol a pagamento di un debito nel 1942 e vi conquistò sei titoli nazionali nel corso della sua lunghissima carriera. Fisico roccioso (1,78 per 76 chili), completo nei fondamentali, trascinatore e capitano, si ebbe il nomignolo di "Vignaiolo" in quanto si diceva che giocasse le partite migliori solo dopo essersi scolato una bottiglia di vino di qualità. Debuttò in Nazionale nel 1939, nel Torneo Sudamericano giocato in Perù, come sostituto di Galvalisi, e impressionò per la straordinaria capacità di diventare il punto di riferimento dell'intera squadra. Non dava tregua agli avversari, in pratica fu un antesignano del pressing e per l'innata vocazione al comando e il magnetismo che emanava su compagni e avversari i suoi compatrioti dicevano che in tempo di guerra avrebbe potuto essere un grande comandante. Il suo fu invece per fortuna un tempo di calcio, di grande calcio, l'ultimo prima del declino della Celeste.
Giocò 52 partite in nazionale, vincendo la Coppa America nel 1942 e il Mondiale nel 1950. A 37 anni giocò il suo secondo Mondiale in Svizzera e rimase imbattuto: si infortunò nel quarto di finale contro l'Inghilterra e saltò la sconfitta ai supplementari contro la Grande Ungheria. Si ritirò nel 1955, a 38 anni, diventando allenatore dello stesso Penarol, ma dopo breve tempo il suo carattere indisponibile ai compromessi lo indusse a lasciare il calcio. Rimase una leggenda del calcio "oriental". Significativa l'usanza della telefonata di auguri del Presidente della Repubblica a ogni suo compleanno. Perchè gli eroi non vanno dimenticati.
 
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